Avevo un sogno: che quel grande appartamento al 1° piano in via Carducci 28, continuasse a raccontare la storia della famiglia Mazzei & Bartolini. Quel grande appartamento era, ed è ancora, la casa dei miei nonni materni. Il B&B Al 28 è un sogno divenuto realtà ed anche una storia di gratitudine nei confronti di questi due signori: Francesca Mazzei e Pietro Bartolini, qui ritratti durante il loro viaggio di nozze nel 1939. Non vi racconterò di loro, almeno non qui, voglio però riportare questo racconto pazientemente raccolto da mio zio Pierluigi nell'estate 2007. Tante cose sono cambiate da quell'estate, ma non è cambiata l'energia che sento intorno ogni momento e che posso trasmettere solo con il ricordo dell'uomo - grande e moderno - che è stato il mio Nonno.
Se avrete piacere di leggere, mettetevi comodi, il racconto è lungo!
Era l'anno 1933. Avevo 18 anni e vista la condizione familiare (avevo perso il babbo all'età di tre mesi) decisi di arruolarmi in Marina. Arrivato a La Spezia mi presentai al deposito della Marina e come benvenuto ebbi in consegna la classica scopa di quasi 4 metri di lunghezza e mi dissero di scopare tutto il piazzale. Pensai subito che quella non era la carriera che desideravo; decisamente non era la carriera che faceva per me. Il secondo giorno passai la visita medica, tutto idoneo, solo avevo due denti cariati. L'ufficiale medico mi mandò dal dentista. Io gli chiesi il motivo e lui mi rispose: "se non ti togli questi due denti cariati non puoi essere arruolato" io di giunta gli risposi: "E allora me ne vado a casa!" Il medico chiamò l'infermiere per farmi fare il foglio per andare via e arrabbiatissimo gridò: "questi vengono qui per fare una girata e basta!"
Così me ne tornai a casa.
Gli anni nella "Regia Marina"
Nel 1935 a gennaio ebbi la chiamata, quella ufficiale di leva della Regia Marina. Anche questa volta mi presentai al deposito di La Spezia e dopo avermi fatto tutti i documenti si accorsero che era sbagliata la data di nascita. Non era il 30 gennaio ma il 30 giugno 1915. Mi chiesero se volevo restare o no; accettai, così avrei finito prima. Dopo due giorni mi dettero la destinazione: imbarcato sul Cacciatorpediniere Maestrale di stanza a Taranto. Eravamo in due con la stessa destinazione; arrivati a Taranto ci presentammo al deposito chiedendo del Maestrale ci risposero che era fuori per esercitazioni e non sapevano quando sarebbe rientrato. Il mio compagno si chiamava Luigi ed era di Albenga. Ci consigliammo con un marinaio su come fare ad uscire in franchigia, ma ci disse che se avessimo fatto domanda in attesa del Maestrale ci avrebbero messo di picchetto così decidemmo di non presentarci neanche all'assemblea. Dopo 4 giorni andammo da un maresciallo a esporre la nostra situazione: avevamo cercato il Maestrale e non avendolo trovato eravamo ancora in attesa di chiamata. Ci disse che dal Maestrale ci stavano cercando da tre giorni e continuò dicendo: "ora vi portiamo a bordo, lì vi sistemeranno loro se non vi hanno ancora dichiarati disertori!" Arrivati a bordo il comandante ci interrogò, ci chiese dove eravamo stati; erano tre giorni che ci cercavano. Noi rispondemmo che eravamo al deposito, il Maestrale non c'era ed infine avevamo chiesto ad un maresciallo che ci aveva portati a bordo ed ora eravamo là. Vorrei fare una premessa. Un parente che era in Marina mi chiese se volevo una raccomandazione o un avvicendamento, vista la mia condizione familiare con mamma vedova. Ma io non lo volevo perché il mio desiderio era quello di imbarcarmi su una nave non troppo grossa come in effetti avevo trovato, io ero cannoniere. Con il Maestrale ho toccato tanti porti stranieri e tutti quelli italiani. Dopo sei mesi cambiò comandante. Il nuovo scelse 6 cannonieri per la sua guardia personale; ci chiamava "i miei moschettieri".
Nel 1936 siamo partiti da Taranto per destinazione ignota. Poco prima dell'arrivo avevamo saputo che 3 navi: il Cacciatorpediniere Maestrale, l'Incrociatore Duca D'Aosta e il Cacciatorpediniere Grecale sarebbero andate a Portoferraio. Arrivati a Portoferraio, nel pomeriggio, essendo franco mi cambiai per uscire, contento di andare a casa a trovare i miei ma l'ufficiale di guardia mi freddò dicendo che non si poteva uscire, dovevamo aspettare ordini dal comandante che era andato a terra. Dopo poco arrivò e ci confermò che non potevamo lasciare la nave; infine si seppe il motivo: stava arrivando il Duce. Il giorno dopo in prima mattina infatti arrivò. Prima andò a fare visita al Duca d'Aosta poi venne sul Maestrale, salì sul ponte di comando con il comandante, Capitano di Vascello Biancheri e, dato l'ordine di partire, salpammo per destinazione sconosciuta. Le prime voci che si diffusero fu che andassimo verso Ostia, invece quando arrivammo a Pomonte si prese la direzione per Portoferraio. Tempo impiegato per fare il giro completo dell'Elba: un'ora e dieci, media miglia orarie 40; davvero una bella velocità. A Portoferraio, sceso a terra, lo portarono in comune, poi a vedere la villa di Napoleone di San Martino e infine partì con un idrovolante per Ostia. Il giorno prima avevano arrestato vari possibili sovversivi e li avevano rinchiusi in una piccola stanza. Eravamo d'estate e in quella piccola stanza faceva molto caldo e i prigionieri avevano sete. Uno di loro, che chiamerò con la sua iniziale C, conosceva il brigadiere che lo aveva arrestato; ci giocava spesso alle carte quindi lo riteneva un amico. Gli chiese se portava loro un fiasco d'acqua perché morivano dalla sete e gli promise che glielo avrebbe portato. Dopo poco C. si sentì chiamare fuori dalla porta, si precipitò per prendere l'acqua invece trovò il brigadiere con una scopa e gliela dette in faccia dicendogli: "questa è l'acqua, vai dentro e zitto!" Purtroppo erano tempi così.
Partito il Duce nel pomeriggio liberarono tutti i prigionieri e noi di bordo, tutti quelli che erano franchi, potevano uscire. Io questa volta non lo ero, passeggiavo sulla nave e guardavo verso casa mia ed ero triste di non poterci andare. Mentre passeggiavo mi sento chiamare: era un ufficiale di guardia che mi diceva di passare in segreteria a ritirare la licenza. Gli dissi che non avevo voglia di scherzare e lui mi ripeté che non era uno scherzo. Io gli feci notare dove era la mia casa quindi non era proprio il caso di prendermi in giro, ma vista la sua insistenza mi presentai in segreteria per sapere se veramente c'era un permesso anche per me che non ero franco. Il segretario mi rispose: "altro che permesso, c'è una licenza di 15 giorni più 2!" Immaginate la mia contentezza, andai subito a cambiarmi. Nel frattempo un marinaio mi annunciava che sotto la nave c'era mio fratello Nello ad aspettarmi con una barca, così presi una valigia, ci misi dei panni sporchi e parecchi pacchetti di sigarette che venivano dalla Spagna. Mi avvicinai al barcarizzo dove c'era Nello con la barca e lì c'era "l'aiutante" che mi aspettava e vista la valigia, sospettando il contenuto, mi chiese cosa avessi. Fortunatamente gli rispose l'ufficiale di guardia: "cosa vuoi che ci sia, sigarette no? In 15 giorni più 2 sicuramente se le fuma!" Così passai. Scendemmo a San Giovanni e c'era una macchina ad aspettarci e ci portò a casa. Naturalmente rientrato a bordo non mancai di ringraziare il comandante per il bel regalo che mi aveva fatto.
Il congedo
Nel 1937 venne l'ordine di congedo, ma anche quello dovevo sudarmelo. Mi mandarono al deposito, fortunatamente lì trovai un portoferraiese, Posini, sottocapo furiere alla segreteria dettaglio. Mi chiese cosa ci facessi lì e risposi che dovevo andare in congedo. Mi disse: "altro che congedo, tutti i congedi sono al momento sospesi, a te cannoniere ti mandano sicuramente subito a Tobruk, in Libia!" Gli chiesi cosa mi consigliava di fare e mi rispose di non presentarmi all'assemblea ma di ascoltare le chiamate e nel frattempo mi avrebbe cercato qualche posto un po' nascosto.
Così il secondo giorno mi chiamarono, destinazione il DICAT a La Spezia. Eravamo in 10 marinai, con un furgone ci portarono al DICAT e fecero l'assemblea. Arrivò il comandante per fare il suo discorso. Io lo guardavo per vedere se mi riconosceva; era stato Capitano, nostro direttore di tiro sul Maestrale. Disse: "qui ci sono due che già conosco: Bartolini e Calò. Fuori" e noi uscimmo dal gruppo. Ci chiese perché eravamo sbarcati, gli dicemmo per congedo ed ora stavamo appunto attendendo l'ordine di congedo e con quello presentarci al deposito per fare domanda di congedo definitivo. Ci confermò di fare così come ci avevano detto ed entro 20 giorni lo avremmo avuto. Con Calò e un altro marinaio decidemmo di andare dal comandante in seconda ma non ci volle dare il permesso. Andammo ugualmente. Giunti al deposito ci domandammo come poter entrare; siccome di guardia non c'era nessuno entrammo, facemmo ciò che dovevamo e ci approntammo ad uscire. Ma che scusa potevamo inventarci? Ora la guardia sicuramente ci sarebbe stata! Alla porta del deposito c'era un Maresciallo e subito ci chiese dove stessimo andando. Dicemmo che eravamo imbarcati sul Maestrale, cosa avvalorata anche dal berretto che ancora avevamo sulla testa e che eravamo andati a vedere se c'era posta. Giustamente ci domandò chi ci avesse fatti entrare e noi rispondemmo che siccome non c'era nessuno eravamo passati liberamente. Arrivati al DICAT la sentinella ci comunicò che il comandante ci aveva cercati; noi gli chiedemmo cosa gli avesse detto lui e questi: "che siete andati al deposito, al che il comandante si è arrabbiato moltissimo e ora dovete presentarvi da lui." Ci presentammo, ci togliemmo il berretto, lui ci guardo un po' sorpreso e aggiunse: "io avevo telefonato al deposito e ho avvertito che appena arrivati dovevano prendervi, raparvi e mettervi in prigione!" A quel punto gli dissi: "mi permetta comandante, noi avevamo già il permesso del Comandante Cecconi da quando siamo arrivati al DICAT ma per rispetto nei suoi confronti siamo venuti a chiederlo anche a lei, ma lei ci ha arronzati come cani mandandoci via di qua, così noi con il permesso verbale del Cecconi siamo andati al deposito a fare domanda di congedo ed ora aspettiamo l'ordine". Lui stette ad ascoltare e poi disse: "bene, quando viene Cecconi vedremo se è vero". Il pomeriggio telefonò il Posini per andare a prendere il sospirato congedo, così finì il militare di Leva.
Il ritorno a casa.
Arrivato a casa c'era il problema di come trovare lavoro e moglie. Riguardo a questa avevo già una mezza parola con Francesca, per il lavoro invece buio pesto. Erano momenti dove le assunzioni all'Ilva erano chiuse ed altri lavori non c'erano. Mi misi subito in lista dai sindacati e tutti i giorni andavo a sentire se c'erano novità, ma invano.
Tutti i giorni verso le 11:00 aprivano la porta solo per comunicare che non c'erano novità. Un giorno ero proprio disperato; ero arrivato da militare, avevo bisogno di vestiario e non avevo neanche un soldo e neanche potevo andarlo a chiedere a mamma che, vedova, aveva tirato avanti due figli e non aveva possibilità. Quel giorno, veramente arrabbiato e fuori di testa, andai al sindacato. Era un ufficio al primo piano per la Calata ed era formato da due stanze: una era l'ufficio del titolare e l'altra era per il pubblico ed aveva una scala con una ringhiera di ferro. Entrato nella stanza vidi che era piena di persone anche loro tutte in attesa di collocazione. Mi dissero subito che non c'era niente di nuovo. A quel punto non ci vidi più dalla rabbia e la sfogai contro la ringhiera: la presi con tutta la mia forza e detti uno strattone staccandola dal suo posto. Cadde giù con un fracasso tale che fece uscire il titolare, un omone grande e grosso, sarà stato alto due metri, con mani che sembravano pale. Arrabbiatissimo, con voce alta chiese chi fosse stato. Io mi feci subito avanti e lui mi invitò in ufficio, mi fece sedere e cominciò a farmi domande sul perché di quel gesto. Nel frattempo si era un po' calmato e io pure. Gli raccontai da quando ero nato a quando ero venuto in congedo; ed ora, senza un lavoro, cosa dovevo fare? Andare a rubare? "Siccome - dissi - a rubare non voglio andare, allora mettetemi in galera. Almeno non devo chiedere un piatto di minestra alla mia mamma!" Non mi rispose, ma lo vidi aprire un cassetto della scrivania e pensai: "Addio. Ora questo mi spara" invece tirò fuori una cartolina rosa, ci scrisse sopra qualcosa, poi la ripiegò e me la consegnò dicendo di andare da Rugiati, capo personale della società Ilva, aggiungendo di non fare più di questi atti. Io lo ringraziai ed uscii. Fuori intanto le persone in sala d'attesa mi aspettavano, credendo di vedermi con gli occhi neri perché a quei tempi erano legnate e basta, invece li avevo rossi dalla contentezza. Mi chiesero incuriositi che cosa mi avesse detto ed io, senza dar loro soddisfazione, risposi: "un paio di ... stivali ... mi ha detto" e me ne andai contento.
Mi presentai subito a Rugiati, gli consegnai la cartolina, mi guardò in faccia, mi chiese se fossi orfano di guerra, io affermai. Mi chiese ancora perché non avessi fatto domanda per l'Accademia, al che risposi che il militare non era per me. Mi assegnarono al monte carica, uno dei peggiori lavori che c'erano. Ci rimasi finché non mi richiamarono per la guerra.
Nel frattempo quella "mezza" parola avuta con Francesca diventò ... una "intera", sì perché il 20 novembre 1939 ci sposammo e partiamo per il viaggio di nozze, con il treno; prima Roma e poi Orciatico, un piccolo paese nella provincia di Pisa dove abitavano dei parenti, compresa una sorella del mio babbo. Il viaggio di nozze durò 15 giorni.
La guerra
Nel 1940 mi richiamarono per la guerra, destinazione la batteria di Bagnaia. Lì facevo il postino e dopo un po' fui promosso sottocapo e passai a fare il capo gamelliere, ovvero dovevo fare la spesa per 100 marinari. Un fatto curioso: il primo giorno, rientrando dalla spesa, mi chiesero se l'avevo fatta anche per il comandante e per il secondo. Risposi che nessuno mi aveva dato quell'incarico e men che meno i soldi necessari; i soldi che avevo erano contati per i 100 marinari. Così si scoprì che non solo gli ufficiali mangiavano alle spalle dei marinai, ma che oltretutto volevano qualcosa di speciale, non accontentandosi di quello che mangiavano tutti. Presi la cosa di petto e mi rifiutai di sottrarre ai marinai quello che gli spettava e dissi che se gli ufficiali volevano mangiare dovevano tirare fuori i soldi. Mi aspettavo da un momento all'altro la chiamata del Comandante, ma non lo fece mai e da quel giorno, quando andavamo a fare la spesa, veniva la sua ordinanza e faceva la spesa speciale. Tutto questo però il Comandante se lo legò al dito ma da come andarono le cose in seguito questo fu un bene.
Due mesi dopo venne l'ordine di smontare il cannone dove ero assegnato, destinazione Tobruk in Africa, dove dovevamo andare con tutto l'equipaggio. A me il Comandante mi mise "per premio" in testa alla lista, ma l'ammiraglio Cerio, persona un po' più equilibrata, tolse dalla lista gli ammogliati. Eravamo in tre e ci mandarono a sostituirne altrettanti che ci avevano rimpiazzati. I posti erano: Capobianco, Comando Marina ed Enfola. Io fui mandato dal Comandante all'Enfola, perché di peggio non ce n'era. Quando eravamo di guardia al "pezzo" ci facevano dormire nelle riservette; siccome ci pioveva dentro io marcai visita accusando dolori, ed era la realtà. Il maggiore medico mi visitò e mi disse che quella batteria non era idonea. Mi consigliò di andare dal Capo di Stato Maggiore con una lettera che lui mi dette, così ebbi il movimento per il Comando Marina di Portoferraio. Lì trovai un autista e mi chiese cosa ci facesse un cannoniere al Comando Marina e mi consigliò di fare cambio di categoria da cannoniere ad autista. Dopo una settimana mi mandarono a La Spezia, dove presi il patentino militare e così da autista passai tutto il tempo della guerra a Portoferraio. Nel 1941 mi fecero sergente, con la paga di 700 lire al mese, era una discreta cifra; all'Ilva ne prendevo 570.
Poi
Il 1941 ci portò un lieto evento: il 12 agosto nacque il nostro primo figlio Pierluigi.
Grazie al patentino e alla guida fatta su vari mezzi da militare decidemmo, con mio suocero Vincenzo, di mettere su un'officina di riparazioni auto ed un'autoscuola; prime nella storia di Portoferraio, nonché un servizio di "noleggio da rimessa", servizio oggi conosciuto come taxi. Ci capitò l'occasione di comprare il palazzo Cacciò, dove tutt'ora vivo assieme a mia moglie. Era mezzo distrutto dalle bombe ma sarebbe andato bene per mettere su le nostre idee. Anche se in un primo momento Vincenzo era un po' riluttante, poi accettò e il 14 maggio 1945 facemmo il contratto.
Il secondo avvenimento di felicità per la famiglia fu l'8 gennaio 1949, con la nascita di una figlia, Anna. Ora avevamo maschio e femmina, quello che avevamo sempre desiderato.
Abbiamo portato avanti le attività per molti anni, poi le abbiamo cedute a quelli che erano i nostri dipendenti. Solo l'autoscuola fu venduta ad un fiorentino che a sua volta ha rivenduto ed è tuttora l'unica scuola guida all'Elba. L'unica cosa che tenemmo delle attività fu il magazzino di autoricambi, che è rimasto sempre con il nome con cui era nato, ovvero Mazzei & Bartolini. E' rimasto aperto fino a pochi anni fa gestito dai due figli Anna e Pierluigi.
La mia vita è continuata ancora con mille altre cose fatte e metterle tutte qui non finiremmo mai. Oggi, a 92 anni compiuti, se le gambe mi dessero un po' meno problemi mi sentirei di fare ancora tante cose. Di tanto in tanto con Pierluigi facciamo qualche cosa in campagna; a me piace fare il vino. Anche quest'anno ho fatto la mia parte; per colpa della "asciuttura" di stagione non ne è venuto tanto; ma mettendolo assieme a quello avanzato dallo scorso anno, possiamo dormire su due cuscini!
(finito di scrivere a settembre 2007)
Che bella storia di vita. Leggendola mi si sono scese anche delle lacrimucce. Grazie per aver condiviso un pezzo della famiglia
RispondiEliminagrazie a te :)
Eliminaproprio così. Grazie Ornella
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